LECCO – Le cronache di questi giorni che riguardano i dati della nostra economia, ci riportano con i piedi per terra nella crisi che sta scuotendo le nostre aziende del settore automobilistico manifatturiero, citando il caso Stellantis e osservando che nubi forse più nere sono sul cielo della Germania, la locomotrice d’Europa, dove già si stanno chiudendo per la prima volta nella storia alcune fabbriche.

Contemporaneamente osserviamo che la produzione industriale è in calo da quasi due anni e nelle nostre imprese industriali, così come in altri settori economici si sta soffrendo la mancanza di tecnici specializzati perché il sistema scolastico non è in grado di far fronte.

Nemmeno il 58° Rapporto Censis, sullo stato del Paese uscito qualche giorno fa, ci mette di buon umore, soprattutto se leggiamo lo stato di salute della nostra scuola.

Nello stesso tempo per molte famiglie e per oltre 500.000 giovani è giunto anche il momento di scegliere la scuola superiore, probabilmente facendosi assistere da un orientamento scolastico più “disorientato” che mai.

In questa caotica e un po’ preoccupante situazione vorremmo offrire ai nostri lettori una più approfondita comprensione degli eventi, che aiuti a guardare un po’ oltre i fatti di cronaca.

È la ragione per cui torniamo dal nostro columnist Valerio Ricciardelli, molto presente anche in questo periodo nei dibattiti e con diverse pubblicazioni sugli argomenti attuali, rilasciando anche recentemente un’intervista a Tuttoscuola da dove vorremmo partire.

Ing. Ricciardelli, dopo la recente intervista che le ha fatto Tuttoscuola, dove è stato considerato uno dei più autorevoli esperti italiani del rapporto tra sviluppo industriale e rilancio dell’istruzione tecnica, tema al quale è dedicato il suo recente volume Ricostruire l’istruzione tecnica, cos’ha da raccontarci di nuovo sui temi della cronaca odierna che oggi sono oggetto di discussioni e forse di preoccupazioni?

Prima di rispondere alla sua domanda voglio anteporre una premessa, accompagnata da una raccomandazione e da una esortazione, soprattutto da rivolgere alle famiglie e agli studenti che si accingono a scegliere il futuro. Può anche servire a tutti gli operatori scolastici che si occupando di istruzione tecnica e professionale.

L’economia mondiale si regge sull’industria e sul settore manifatturiero avanzato, così come l’Europa che oggi è in crisi per aver perso parecchia competitività nei confronti degli Stati Uniti e della Cina, con i quali si deve confrontare in un mercato che ormai è mondiale. L’Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa dopo la Germania e deve assolutamente rimanere in questa posizione, pena veder peggiorare il nostro stato di benessere, intendendo il nostro sistema assistenziale e soprattutto previdenziale.

Per non correre questo rischio devono funzionare bene, soprattutto, le nostre aziende industriali, che non sono sempre in un buono stato di salute, anche perché hanno bisogno per far fronte ai loro impegni di tecnici che non trovano. Poi dobbiamo avere una buona occupazione non precaria e con salari adeguati, che spesso non lo sono. Una delle tante ragioni per cui mancano i tecnici è che il mestiere del tecnico, qualunque esso sia, non è attrattivo ormai da tempo, perché si pensa che sia un mestiere sporco, pesante e mal retribuito, con tante altre negatività. Non è così.

Per questa errata percezione, l’istruzione tecnica e l’istruzione professionale sono state ridotte nel nostro immaginario collettivo come due percorsi scolastici considerati di serie B e di serie C, rispetto ai percorsi liceali considerati invece di serie A. Anche i “traguardi di apprendimento” come indica nel suo recente rapporto il Censis, per una importante percentuale non sono sufficienti, e così si è amplificata di conseguenza la disaffezione e il rifiuto verso i mestieri tecnici e le scuole tecniche e professionali.

Per queste ragioni, come abbiamo già scritto, c’è una mancanza di ben 100.000 tecnici, stimata anche per i prossimi 5 anni se non succede qualche imprevisto che potrebbe anche capitare, mentre c’è un esubero annuale di circa 65.000 diplomati liceali.

Questa situazione è perlomeno paradossale, perché non solo le professioni tecniche sono vitali alla nostra economia e quindi al sostegno del nostro welfare, ma tra queste ci sono tanti mestieri ad alta qualificazione che ribaltano tutti i pregiudizi che si sono formati finora e che, in gran parte, originano anche da un pessimo orientamento scolastico oltre che da una assoluta mancanza di conoscenza di cosa sia il sistema delle nostre imprese industriali.

Quindi, la mia raccomandazione è di superare con fiducia questi pregiudizi e prendere in seria considerazione l’iscrizione alle scuole tecniche e professionali, che nel nostro territorio sono di qualità e molto referenziate. Questa scelta è comunque una garanzia, anche perché indipendentemente dalle varie crisi che potrebbero capitare, la nostra economia e l’economia europea avranno sempre bisogno di lavoratori con basi di conoscenza tecnica e professionale. E questi saranno i lavoratori del futuro.

Non è però sufficiente intraprendere la scelta dell’istruzione tecnica o professionale per avere successo. Occorre però applicarsi allo studio con impegno e serietà, cose che oggi sono molto disattese e con grande responsabilità di scarsa consapevolezza, da attribuire alle famiglie. E qui vengo all’esortazione.

Bisogna affrontare gli studi, qualunque essi siano, con tanto impegno. Bisogna studiare, studiare, e poi studiare ancora; non ci sono scorciatoie. Soprattutto le famiglie devono rendersi consapevoli e responsabili di quanto sia importante innalzare il livello di conoscenza dei loro figli, che dai dati del Censis è drammatico, per accompagnarli nella costruzione del loro futuro. Il Censis ci riporta che il 43,5% degli studenti dell’ultimo anno delle superiori non raggiunge i traguardi di apprendimento in italiano e il 47,5% in matematica, con picchi che superano l’80% negli istituti professionali. Ciò ci fa supporre che anche nelle materie professionali degli ultimi anni dell’istruzione tecnica e professionale ci siano percentuali così allarmanti di insufficienze. Con questi numeri siamo in presenza di una emergenza nazionale e certamente non saremo in grado di costruire le competenze per affrontare le sfide di cui ha bisogno il Paese. Di questa débâcle non può farsi carico solo la scuola. Tutta la società deve reagire, ma soprattutto le famiglie devono reagire con immediatezza e determinazione mettendo al primo posto del loro ruolo educativo la scuola, pena il futuro dei giovani e di tutto il Paese. Ne ho scritto in dettaglio in un articolo pubblicato da Paolo Pagliaro sul giornale che dirige

E allora quali sono le novità delle cronache di questi giorni?

Già il rapporto Censis, con il capitolo dal titolo “La fabbrica degli ignoranti” mette non poca apprensione. Poi ci sono altri argomenti, di cui ho già scritto nel mio libro e in tanti altri articoli e che vengono alla ribalta per altre vie.

Una novità importante, di cui si sta parlando poco, è che Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) ha recentemente reso pubblico un documento denominato “Made in Italy 2030”, presentato anche come “Libro Verde sulla Politica Industriale del Paese”. Con questo documento il MIMIT, guidato dal ministro Adolfo Urso, apre una consultazione pubblica che, attraverso gli Stati Generali dell’Industria porterà il nostro Governo alla definizione di un Libro Bianco sulla Strategia Industriale per il Paese, già dal prossimo febbraio 2025.

Questo cosa significa?

Le considerazioni che possiamo fare sono semplici.

È una buona notizia o perlomeno una notizia di cui aspettavamo da tempo. Finalmente si è capito che il settore manifatturiero è vitale per il nostro Paese, e quindi abbiamo bisogno dell’industria; che il settore industriale è vitale per l’Europa e l’ha scritto Draghi nel suo recente rapporto; che per fare una politica industriale seria bisogna avere un piano strategico che indichi cosa fare, come fare e con chi, e non muoversi nel buio; che il nostro Paese non ha da decenni un piano industriale (fatto salvo il piano Industry 4.0) e se non definisce in fretta la sua strategia industriale, come è scritto nel Libro Verde “rischia una marginalizzazione economica che ci porterebbe indietro di decenni e a cui farebbe conseguente seguito anche quella politica”. Allora ben venga il Libro Bianco, purché sia ben fatto, purché lo Stato sia in grado di assumere un ruolo guida conveniente, purché tutti gli attori siano in grado di fare il giusto deployment, ossia metterlo in pratica.

Cosa è stato fatto finora e cosa si dovrebbe fare?

Finora è stato pubblicato quello che secondo le “grammatiche” di queste cose è chiamato il Libro Verde, che è il punto di partenza di un processo più lungo, ma è pur sempre un documento corposo di 260 pagine. L’obiettivo di questo scritto preliminare è di definire i punti cardinali della prossima politica industriale dell’Italia, iniziando a discutere su quattro temi portanti: l’identità industriale italiana; la sfida delle transizioni verde, digitale e geopolitica; il ruolo strategico dello Stato nella sua azione nel mondo produttivo; la dimensione internazionale della politica industriale. Tutti argomenti che condizioneranno il nostro futuro. A seguire sono poi declinati 15 obiettivi strategici per una politica industriale nel medio periodo, intendendo il prossimo quinquennio e, attorno ad essi, “si dovrà costruire un consenso condiviso tra Amministrazioni centrali dello Stato, imprese, parti sociali ed enti locali”.

A seguire, dopo una fase di consultazione pubblica ci dovranno essere gli Stati Generali dell’Industria per poi arrivare a produrre il Libro Bianco sulla politica industriale del Paese, che secondo gli obiettivi dovrà essere un “contenitore unico”, intendendo il “driver principale che indirizzerà, trascinerà e conterrà tutte le altre politiche del Governo che concorrono alla crescita produttiva, anche con il coinvolgimento fondamentale della risorsa umana”. E anche questa è una importante indicazione strategica perché significa che in tutte le altre politiche complementari dell’internazionalizzazione, del lavoro, della scuola, e altro ancora, non si deve procedere in ordine sparso.

Qual è la sua impressione iniziale?

Il processo complessivo è corretto e se vogliamo obbligatorio, il buono o cattivo esito dipenderà da come lo si fa, dalla partecipazione che ci sarà e dalle competenze che si metteranno in campo.

Il primo impatto sul Libro Verde è di un documento work in progress, in lavorazione, quindi bisognoso di parecchie puntualizzazioni, correzioni, approfondimenti e integrazioni, anche importanti che mi auguro possono arrivare dai contributi della consultazione pubblica e dagli Stati Generali dell’Industria. Poi il Libro Verde evidenzia una inopportuna e inutile ideologizzazione del marchio Made in Italy, inducendo un po’ di confusione sull’argomento, quasi facendo sembrare che tutto il settore manifatturiero italiano sia rappresentabile con il Made in Italy. È un argomento che deve essere approfondito. Comunque, il documento indica, finalmente, che la parte preponderante del nostro Made in Italy (che sono poi i beni che esportiamo), è il settore della meccanica strumentale. Quante volte lo avevamo già scritto? Per ripetermi, si tratta, del cosiddetto machinery industriale, inteso come i macchinari e gli impianti produttivi, necessari a produrre beni in una vasta gamma di settori economici. Va precisato peraltro che la manifattura del nostro paese non è solo la trasformazione di materie prime e semilavorati, come sembrerebbe emergere dal Libro Verde: è anche l’assemblaggio di prodotti industriali ad alta innovazione tecnologica di produzione straniera, per costruire sistemi industriali e macchine complesse che sono l’asse portante delle nostre esportazioni. La descrizione dell’importanza del Made in Italy nel Libro Verde evidenzia anche quello che a me sembra un ossimoro, quando indica come scelta strategica per il sostegno di questo settore economico l’istituzione di un liceo apposito quello del Made in Italy, soluzione decontestualizzata dalla realtà di cui abbiamo scritto tantissimo, mentre sarebbe invece necessaria una buona istruzione tecnica a supporto dello stesso Made in Italy, fatta da una rete di istituti tecnici per il Made in Italy da collocarsi almeno nelle 4 regioni o nelle 12 province dove il Made in Italy è prodotto. Anche su questo argomento abbiamo pubblicato parecchi contributi di riflessione.

E quali reazioni si stanno avendo?

Mi sembra tutto sottotraccia.

Stranamente i media non ne hanno ancora parlato pur essendo prossima la scadenza di febbraio, data entro la quale dovrebbe essere pronto il Libro Bianco.

Mentre si commenta il caso di Stellantis dopo le dimissioni di Tavares e quanto sta già succedendo con le aziende dell’indotto, affermando fortemente che una delle cause di tutto ciò che sta avvenendo nel settore automobilistico è la mancanza di una politica industriale, di questa nuova iniziativa non se ne parla. Potrebbe essere che il precipitare del caso Stellantis abbia indotto una pausa di riflessione per rimettere in ordine lo scacchiere.

Il Libro Verde si occupa essenzialmente di politica industriale, ma quali ulteriori riflessioni si possono suggerire per la politica scolastica?

Questa è la domanda chiave che ci dobbiamo fare, anche perché, se come affermato, il Libro Bianco dovrà essere il contenitore unico che indirizzerà, trascinerà e conterrà tutte le altre politiche del Governo pere non lasciarle andare in ordine sparso, vuol dire che ci dovrà essere, come è ovvio, una stretta relazione tra la politica industriale del Paese e la politica scolastica, intesa come la politica che riguarda l’istruzione tecnica e professionale. Le due politiche devono viaggiare su binari paralleli e continuamente confrontarsi.

Ma queste cose le ha già scritte nel suo libro e nei suoi articoli

Intanto, nel Libro Verde c’è scritto che ‘In questi anni si deciderà se il nostro Paese avrà ancora i titoli ed i numeri per essere considerato una delle principali economie del pianeta o se invece esso sarà avviato a un destino di stagnazione e forse di declino nel nuovo sistema economico in cui saranno definitivamente cessate le rendite di posizione geoeconomiche ed irromperanno nuovi attori produttivi, nuove tecnologie e nuove interdipendenze’.

Allora bisogna fare delle politiche scolastiche con misure terapeutiche di profilassi a supporto delle sfide che ci attendono.

Queste preoccupazioni sono state proprio l’origine del mio recente libro dove, già nel titolo, indicavo che era suonata ‘l’ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, per salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare’, e che per affrontare queste evenienze fosse necessario ricostruire l’istruzione tecnica con una rivoluzione copernicana, passando anche qui attraverso una grande iniziativa di consultazione pubblica fatta con gli Stati Generali. Proposi, in tempi non sospetti, lo stesso formato che oggi è stato attivato per preparare il Libro Bianco sull’Industria.

E quindi cosa propone?

La cosa più ovvia che si deve fare in queste situazioni. Proposi, in tempi non sospetti, lo stesso formato che oggi è stato attivato per preparare il Libro Bianco sull’industria, passando anche qui attraverso una grande iniziativa di consultazione pubblica fatta con gli Stati Generali dell’istruzione tecnica. E lo feci anche per la preoccupazione che con riforme frettolose si mettesse il carro davanti ai buoi. Alla luce di queste novità riaggiorno di nuovo la mia proposta: che assieme al Libro Bianco sull’Industria si faccia quello sull’Istruzione tecnica, almeno per completare gli interventi di riforma coerentemente con le strategie industriali che ci servono e magari istituendo gli istituti tecnici del made in Italy, perché questo settore economico, se ben indirizzato verso nuovi mercati di esportazione dove c’è crescita demografica, potrebbe diventare l’attenuatore della crisi del settore dell’automotive.

Come possiamo chiudere?

Come vede non c’è nessuna novità. Sono tutte cose che abbiamo già detto e scritto.

Repetita iuvant.