Leggo l’intervista di Angelo De Battista, ex preside dell’Istituto Badoni di Lecco, uno degli istituti tecnici più importanti del nostro Paese, che evidenzia come il mancato incontro tra scuola e lavoro, tra formazione e occupazione corrispondente è un tema drammaticamente vero, che va ben oltre la pur necessaria innovazione di contenuti e metodi della scuola.

De Battista, tra le varie testimonianze, cita anche una esperienza positiva di uno studente che ha fatto l’alternanza in una azienda di grandi dimensioni all’estero.

Anche per la stima nei confronti dell’ex preside del Badoni, mi sento di riprendere il suo appello, con qualche approfondimento.

Da tempo sostengo che il nostro Paese ha bisogno di un grande rilancio dell’Istruzione Tecnica, che io chiamo Technical Education, per uniformarmi ad una terminologia internazionale.

L’Istruzione Tecnica, in tutti i paesi evoluti ed anche nei pesi in via di sviluppo, è la punta di diamante del sistema scolastico, perché l’economia mondiale è, e sarà sempre più, basata sul Manufacturing e prossimamente anche sul green Manufacturing.

Da tempo ripeto che l’Istruzione Tecnica, nel nostro Paese, è una leva strategica per determinare una crescita economica immediata e sostenibile, occupazionale immediata e sostenibile e anche una prevenzione alla migrazione economica. Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento particolare che per ora tralascio.

Se guardiamo la Germania, che è il primo paese manifatturiero in Europa, osserviamo che ha un sistema di Techical Education di altissimo livello, dove tutti i mestieri tecnici sono ben individuati in profili di ruolo chiari, dove per ogni profilo sono ben definite le competenze che lo contraddistinguono, che poi sono riconosciute e certificate dalle Camere di Commercio, che hanno un ruolo completamente diverso dalle nostre organizzazioni camerali.

La Germania però ha un sistema industriale abbastanza diverso dal nostro. Il sistema tedesco è prevalentemente basato sulla grande e media impresa-basti guardare al settore automotive- e soprattutto è presente una cultura di Corporate Social Responsability che pone l’education tra gli obiettivi strategici principali delle aziende. Cosa che non avviene in Italia.

Con questa impalcatura culturale, che ha origini lontane, negli anni Sessanta del secolo scorso, è nato il famoso modello duale, che dapprima si è esteso in alcuni paesi del Nord Europa e poi, progressivamente, è stato esportato anche in altri continenti, compresa l’Africa, utilizzando la leva della Cooperazione Internazionale. La Germania ha quindi una offerta scolastica di Technical Education che non solo risponde alle esigenze delle aziende, e quindi sempre in linea con i tempi e con le politiche di sviluppo del paese, ma è anche molto attrattiva per gli studenti e per le loro famiglie.

È palese che un giovane italiano che faccia una esperienza di alternanza in Germania, ne torni soddisfatto, così come i giovani tedeschi non sono insoddisfatti del lavoro, tutt’altro. Tutta questa insoddisfazione al lavoro, di cui ne parla in suo recente libro anche la filosofa Maura Gancitano, andrebbe meglio indagata.

Ma noi non conosciamo la Germania e non abbiamo mai colto la possibilità di fare un benchmarking per vedere cosa c’è da imparare. Però abbiamo tante aziende tedesche in Italia, soprattutto del Baden-Württemberg, che ovviamente incontrano tantissime difficoltà, come tutte le altre aziende, a reclutare giovani tecnici, che certamente almeno nelle aziende di origine tedesca, non troverebbero un ambiente di “insoddisfazione al lavoro”.

Aggiungo anche che le aziende tedesche accolgono molto bene i nostri giovani che vogliono migrare in Germania e certamente per loro è una grande occasione di crescita professionale e non solo. L’Italia, che è da tempo il secondo paese manifatturiero in Europa con una grande componente di esportazione, all’epoca della riforma della “Buona Scuola”, con l’introduzione dell’alternanza scuola- lavoro, ha cercato di copiare il modello tedesco, tentando di esportarne qualcosa, ma con scarso successo. Innanzitutto, perché il sistema tedesco non è esportabile, anche perché il nostro sistema industriale è completamente diverso da quello tedesco ed è rappresentato prevalentemente da piccole e medie imprese, poi perché la Germania investiva in quegli anni ben 43 miliardi di euro all’anno per fa funzionare il loro modello duale, mentre il budget che aveva previsto il nostro governo non superava i 100 milioni di euro.

De Battista dice poi una grande verità: “che oggi i prodotti e servizi hanno un crescente contenuto di conoscenza e i processi sono interamente tecnologizzati; quindi, per lavorare dignitosamente, bisogna avere più istruzione e più formazione”. Aggiunge anche: “ma questa maggior qualità è un dovere obbligatorio, al quale non corrisponde un diritto certo”. Su questo sono meno d’accordo. Da tempo, nei consessi internazionali, quando si parla di Education, intendendo l’istruzione e quindi la scuola, lo si fa in quella che si chiama la filiera delle tre E, che significano, in ordine:

Economy-Education-Employability.

Ancor di più vale per l’Istruzione Tecnica, quindi la Technical Education.

Si deve sempre partire dall’economia. La crescita, lo sviluppo, l’innovazione, sono fattori connessi all’economia che ha bisogno di una cultura e di una istruzione e formazione coerente. Ed è evidente che è sempre l’economia che genera e distrugge Employability, quindi occupabilità, ma la gestione complessiva di un sistema economico e sociale deve sempre avere un saldo di occupabilità positivo. I mestieri che spariscono, ed è normale che molti mestieri stiano sparendo, devono essere sostituiti da nuove professioni in quantità superiori, se abbiamo un tasso di disoccupazione importante.

Anche su questo aspetto, non essendoci  una cultura dell’Education for Employability (E4E), non abbiamo nemmeno un osservatorio sulle variazioni dell’occupabilità delle professioni (fenomeno invece molto diffuso), per cui molto spesso ci si trova di fronte a perdite di posti di lavoro quasi inaspettate, proprio per la mancanza di una valutazione preventiva del fenomeno.

Allora il problema è di come creare un’offerta formativa veramente coerente con l’esigenza dei cambiamenti economici, e nello stesso tempo coerente con una politica occupazionale non precaria.

Ma questa offerta di istruzione tecnica deve essere attrattiva per i potenziali discenti e allora bisogna orientare tutti gli attori, a partire dai giovani e dalle loro famiglie, alla comprensione che le nuove professioni tecniche non sono più mestieri sporchi, faticosi, dove si guadagna poco, ma sono mestieri sempre più di alto contenuto professionale e continuamente rinnovabile.

Però dobbiamo prendere atto che manca una seria attività di orientamento, fatto salvo le eccezioni. In tal caso la scelta delle scuole tecniche e professionali non sarebbe più vista come una scelta scolastica di serie inferiore e forse, finalmente, si realizzerebbe il sogno dei grandi pensatori del passato, quali Giancarlo Zuccon, Orazio Niceforo, Beniamino Brocca e altri, che hanno sempre sostenuto la necessità di costruire un sistema scolastico in grado di conferire pari dignità formale e sostanziale ai percorsi di formazione tecnica, fino alla formazione superiore.

Fare orientamento e costruire una adeguata e attrattiva offerta formativa di istruzione tecnica, richiede però di conoscere molto bene l’economia e in particolar modo il nostro sistema industriale, che ripeto è fatto da piccole e medie aziende e che non è conosciuto. Oggi il soggetto elementare da cui partire, per comprendere l’economia, non è più solo l’azienda, ma la sua supply chain; quindi, si deve rappresentare e analizzare l’azienda nella filiera complessiva, in cui sono individuati i suoi clienti e i clienti dei clienti, e i suoi fornitori e i fornitori dei fornitori. Il sistema di osservazione è pertanto più complesso, e richiede delle competenze specifiche.

Guardare al futuro, per i giovani, ma anche per il personale della scuola, significa disporre di una “grammatica” adeguata a costruire e interpretare il modello economico industriale di quel futuro. E quel modello non è solo la rappresentazione dell’esperienza di una singola azienda, sia pure di successo e interessante. Non si possono più analizzare i bisogni di operatori o di tecnici, come si faceva una volta, sentendo l’imprenditore “sotto casa” che diceva che era alla ricerca di un fresatore o di un tornitore o di un programmatore di un PLC.

L’analisi dei bisogni richiede l’uso di ben altre grammatiche, in grado di descrivere e rappresentare in modo strutturato il modello di una azienda industriale, dove sono ben individuati i processi, i ruoli, le competenze, gli indicatori di performance e tanto altro ancora, nel quadro complessivo dei fenomeni che governano l’economia globale e i suoi continui cambiamenti.

Questo lavoro è un argomento complesso, già affrontato tanti anni fa, in un convegno nazionale sull’istruzione tecnica, dove si sostenne già a quell’epoca, che non era sufficiente far dialogare la scuola con la imprese, ma che serviva tra le due istituzioni un terzo soggetto, a quei tempi chiamato l’interprete, che fosse in grado di modellizzare, per la scuola, il “sistema delle imprese” e per le imprese il “sistema della scuola”. A distanza di quasi trent’anni da quelle prime intuizioni, poco è stato fatto. Potrebbe, invece, essere di aiuto un libro di prossima pubblicazione dal titolo: Percorsi di ManagementUna grammatica e una sintassi per le trasformazioni nelle aziende Imprenditoriali.

A mia conoscenza è il primo manuale che spiega molto bene il modello dell’azienda industriale italiana, come è fatta e come funziona e soprattutto quali trasformazioni potrebbero renderla continuamente innovativa e quindi competitiva in un mercato globale. Certamente il manuale è rivolto agli imprenditori e ai manager, ma è altresì un aiuto preziosissimo per tutti i docenti delle scuole tecniche e professionali, compresi gli orientatori o quelli che saranno i nuovi tutor, per capire, una volta per tutte, come si costruisce un modello fisico, matematico e socioeconomico per rappresentare una azienda dove potranno trovare occupazione le giovani generazioni.

Torno ancora sulla affermazione di De Battista: “Troppi giovani insoddisfatti del lavoro”. Non nascondo che ci sono delle situazioni lavorative che meritano di essere attenzionate.

Poi c’è dell’altro. Anche negli anni Settanta-Ottanta, le prime esperienze lavorative, anche per i laureati, erano di poche soddisfazioni. Allora si giustificava il malumore dicendo che si doveva fare il “periodo di gavetta”, intendendo che prima di tutto bisognava imparare a fare anche i lavori più umili. Oggi non c’è più questo spirito di sacrificio. Questo però confligge con il fatto che le aziende non pagano in funzione di un titolo di studio, ma bensì in funzione dei risultati e quindi delle performances, che si è in grado di produrre. E questo concetto è ben evidente nel parametro aziendale individuato nel “costo unitario per unità di prodotto”, che dal 2009 in Italia è drammaticamente salito, mentre in Germania, in Francia e in Spagna è decisamente sceso. Il costo unitario per unità di prodotto è una variabile complessa, che comunque dipende da due variabili fondamentali: la prima riguarda le competenze dei lavoratori, la seconda riguarda l’organizzazione dell’azienda che, indirettamente, dipende ancora dalle competenze dei lavoratori. Insomma, per essere competitivi e per far funzionare bene le aziende servono persone competenti e laddove ci sono le competenze, c’è sicuramente meno insoddisfazione sul lavoro o comunque il giovane lavoratore ha una maggior potenziale di employability, da spendere sul mercato e quindi può giocarsi meglio le sue carte in un mercato del lavoro dove c’è una grande carenza di tecnici. Certo che non si può trovare sempre il “posto di lavoro sotto casa”, e anche qui incide molto lo spirito di sacrificio che è un prerequisito fondamentale per entrare nel mondo del lavoro.

C’è poi un’altra questione più preoccupante che forse incide maggiormente sui laureati, e che mette in discussione le affermazioni un po’ discutibili di Maura Gancitano e Andrea Colamedici nel loro libro dal titolo: Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo. Anche in questo testo, scritto da due filosofi che forse non conoscono bene il mondo delle aziende, si racconta di questa grande insoddisfazione verso il lavoro a cui bisogna dare una nuova dignità, incominciando a metterlo seriamente in discussione.

Insomma, sembra che il problema oggi siano le “postazioni lavorative” generatrici di insoddisfazione. C’è molta confusione in giro.

Racconto di nuovo un caso di cui ho già parlato in una recente intervista e che riguarda un concorso per assumere nuovi magistrati, per la nostra magistratura, che, come si sa, è sottorganico. Il concorso prevedeva una prova scritta e una orale, per assumere 310 magistrati. Alla prova si sono presentati ben 3797 candidati, quindi un campione significativo dei nostri laureati in legge, ma solo il 5,7 per cento è stato giudicato idoneo, e questo è il primo campanello di allarme. Il giudizio che è stato espresso sui partecipanti non idonei da parte della commissione giudicatrice è terribile. I temi redatti dai concorrenti sono stati giudicati scritti in un italiano primitivo, senza alcuna logica argomentativa, quasi non valutabili.

E tanti altri privi dei requisiti minimi, pieni di refusi ed errori concettuali e di diritto, di cui alcune centinaia di temi sono stati dichiarati francamente imbarazzanti. Questi sono i giudizi degli autorevoli commissari che hanno corretto gli scritti, e non è poco. Il “disastro” del concorso ha confermato altresì una tendenza decisamente decrescente della percentuale degli idonei: le percentuali precedenti erano almeno superiori al 10 per cento, oggi siamo al 5 per cento.

Quindi siamo su una curva di declino. Chi stava correggendo gli elaborati disse anche: non possiamo scendere nell’aneddotica perché la selezione è ancora in corso, ma siamo colpiti nell’osservare così poca confidenza con il ragionamento giuridico e tanta distanza dagli standard minimi di elaborazione e scrittura. Viene da chiedersi come sia possibile, a questi livelli. Ed è la domanda che si fanno in molti: come sia possibile che il 95 per cento dei laureati, che partecipa ad un concorso pubblico, dove devono scrivere e argomentare di temi coerenti con la loro formazione e quindi con la loro laurea, producano un elaborato al di sotto degli standard minimi di elaborazione e scrittura e senza nessuna logica argomentativa? E costoro pensavano di essere idonei per fare il magistrato? E quindi per occupare un posto di lavoro? E per produrre quali performance?

C’è allora da riflettere e da preoccuparsi perché il fenomeno potrebbe non essere un caso isolato.

Temo infatti che questo problema colpisca anche altri indirizzi di laurea. Ma da qui scaturiscono altre domande. Intanto: dove andranno a lavorare i 3600 bocciati per le loro così gravi lacune? Probabilmente ce li troveremo da qualche parte, o nell’esercizio della professione forense, o in posizioni pseudo manageriali da qualche parte o anche come insegnanti delle nostre scuole, magari recriminando i bassi salari che offre il mercato e intercedendo una politica per l’innalzamento degli stipendi ed esprimendo grande insoddisfazione nel lavoro, al punto di cominciare a metterlo seriamente in discussione.

Insomma, se uno va a lavorare, ha un po’ di spirito di sacrificio, ha competenza, ha voglia di imparare, ha voglia di mettersi in discussione, prima o dopo trova la sua soddisfazione. Se uno invece proviene dalla categoria del 94% dei candidati gravemente inidonei al concorso di magistratura e trova comunque un posto di lavoro, innanzitutto deve ritenersi fortunato, poi comunque il costo della sua inadeguatezza professionale qualcuno lo dovrà pur pagare, ma certamente non si possono accettare conversazioni filosofiche sul lavoro che prescindano dalle competenze dei lavoratori.

Tornando all’istruzione tecnica, e al suo potenziale e importante ruolo strategico per il rilancio del nostro Paese, occorre che sia ripensata e rilanciata con un grande piano strategico che vada oltre gli interventi frammentari di manutenzione dell’esistente. Serve un approccio olistico, con una grande visione sistemica.

E non servono subito i soldi, servono prima le idee. Come fare?

I capitoli da affrontare sono tantissimi e vanno affrontati con una visione d’insieme. Non possono essere affrontati solo dal mondo della scuola e in modo verticale. Servono gli economisti e gli esperti di Education for Employability, per poi costruire un grande progetto di un nuovo sistema TVET (Sistema di istruzione e formazione tecnica e professionale).

Si potrebbe partire da un Libro Bianco sull’istruzione tecnica, per poi arrivare ad un evento sul modello di Cernobbio, con focus: L’istruzione tecnica per il rilancio del Paese.

Abbiamo infatti bisogno di decine e decine di migliaia di giovani tecnici diplomati e con diploma di istruzione superiore, ben formati e subito, altrimenti le nostre aziende sono destinate a chiudere. Lo scrisse già Romano Prodi il 17 gennaio del 2016.

Non è sufficiente guardare il presente, dobbiamo imparare a progettare il medio e il lungo termine, che nella scuola e per l’istruzione tecnica, è una conditio sine qua non per costruire il futuro del Paese.

di Valerio Ricciardelli – studioso ed esperto di Technical Education