EDUCATION-ECONOMY-EMPLOYABILITY:
una proposta di legge che lascia perplessi
di Valerio Ricciardelli –
studioso ed esperto di Technical Education

Fabio Rampelli (@fabiorampelli) / TwitterI giorni scorsi abbiamo avuto notizia della proposta di legge di Fratelli d’Italia, con primo firmatario il deputato Rampelli, formulata in otto articoli, che ha l’obiettivo dichiarato di difendere la lingua italiana dal “dilagare” delle parole straniere, in “un’ottica di salvaguardia nazionale e di difesa identitaria”. Tutto questo con obblighi, divieti e sanzioni, per chi dovesse violarli con multe dai 5 mila ai 100 mila euro.
Si va dalla PROIBIZIONE DELL’USO DI DENOMINAZIONI STRANIERE PER I RUOLI NELLE AZIENDE, fino alla stretta sui corsi in lingua nelle università.

“Se non ti fai capire o non vuoi farti capire dal popolo sei antidemocratico “, ha commentato il primo firmatario Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera.

Per chi si occupa da una vita di EDUCATION-ECONOMY-EMPLOYABILITY e quindi conseguentemente di organizzazione aziendale, profili di ruolo, competenze e pertanto di mercato del lavoro in una economia mondiale, ciò che è stato proposto da questi parlamentari ha dell’incredibile.

Nell’articolo 4, comma 2 della proposta di legge, c’è scritto: LE SIGLE E LE DENOMINAZIONI DELLE FUNZIONI RICOPERTE NELLE AZIENDE CHE OPERANO NEL TERRITORIO NAZIONALE DEVONO ESSERE IN LINGUA ITALIANA. È AMMESSO L’USO DI SIGLE E DI DENOMINAZIONI IN LINGUA STRANIERA IN ASSENZA DI UN CORRISPETTIVO IN LINGIA ITALIANA.

Per chi ha lavorato come me, per oltre 35 anni, in una azienda italiana ma appartenente ad un gruppo internazionale con ben 65 altre aziende sparse nel mondo, e che per la sua responsabilità di mercato ha operato nel territorio nazionale, leggere tale proposta di legge, lascia veramente sconcertati ed è la ragione per cui sento il dovere di formulare alcune considerazioni.

Corso di preparazione per l'esame di lingua Inglese B1 e B2 - Laboratorio Didattico SeneseChi ha concepito questa idea sembra che non conosca come funziona l’economia mondiale, l’economia europea, l’economia nazionale e come sono legati tra di loro i sistemi economici. Non si conosce come sono organizzate le aziende, che cosa sono i mercati, cos’è il mercato del lavoro, come si denominano le “funzioni” ricoperte nelle aziende e perché si denominano con un linguaggio universale, che è e deve essere, innanzitutto, il linguaggio del business e che, per ora, è la lingua inglese.

O forse questi promotori, non sanno che al di là delle varie lingue nazionali e sopra le varie lingue nazionali, c’è un linguaggio universale che è, sia quello del BUSINESS, quindi di ciò che è chiamato il “mondo degli affari”, ma che è anche il linguaggio delle ISTITUZIONI INTERNAZIONALI che regolano e gestiscono i problemi e le questioni sovranazionali e sovra continentali.

Forse non si sa che la lingua inglese ha due funzioni d’uso: quella di essere la lingua dei paesi anglofoni e quella di essere lo strumento di comunicazione, e quindi la lingua internazionale nel mondo delle aziende e delle istituzioni internazionali. E che questa funzione d’uso di lingua internazionale ha un suo glossario, un suo vocabolario universalmente riconosciuto, molto più efficace delle lingue nazionali. Come lo è il latino nella Chiesa e come lo è stato il latino nel mondo del “business” del passato. Basta leggersi gli atti notarili del Seicento e Settecento per capirne un po’ di più.

Forse non si conosce bene come funziona l’economia e non si sa che le aziende e le istituzioni lavorano in una economia globale mondiale e spesso fanno parte di organizzazioni internazionali dove sono uniformate e standardizzate le “funzioni aziendali” e i modelli organizzativi, con uniche denominazioni valide in tutto il mondo.

Forse non si sa che, oggi l’azienda è una entità complessa, definita da quella che è chiamata la sua “supply chain”, dove deve essere conosciuto il mercato a cui ci si rivolge, attraverso i clienti e i clienti dei clienti e le fonti di fornitura, con i fornitori e i fornitori dei fornitori. E che tutte queste cose sono ben descritte nelle “grammatiche” che spiegano cos’è e come funziona l’economia nella sua complessità e il mercato del lavoro, e tutto ciò non è scritto, ovviamente, nella lingua nazionale.

Forse non si sa, che le “funzioni ricoperte nelle aziende” dal personale, quindi quanto la proposta di legge identifica con i termini SIGLE E DENOMINAZIONI, è quanto viene riportato e scritto anche sul biglietto da visita del personale, e che questo biglietto da visita è, innanzitutto, uno strumento di lavoro che serve per presentarsi e accreditarsi nei CONTESTI LAVORATIVI (mercato, clienti, fornitori, colleghi, altri stakeholders), che non sono le “province” dove probabilmente vivono i firmatari della legge e dove si procurano i voti. E questi CONTESTI LAVORATIVI sono TUTTI I PAESI DEL MONDO, dove le nostre aziende operano già da tempo, o dove dovranno operare in un prossimo futuro per garantirsi una crescita economica sostenibile, che è il presupposto per la crescita sociale e occupazionale di cui ha bisogno, con assoluta urgenza, il nostro PAESE.
Le aziende italiane, appartenenti a gruppi internazionali, che sono tantissime, e che continuamente si relazionano con tutte le altre loro consociate, ovviamente usando il LINGUAGGIO DEL BUSINESS, e cosa dovrebbero fare, di fronte ad una simile legge, qualora andasse in porto?

Dovrebbero modificare la denominazione delle funzioni aziendali,” italianizzandole” tutte? Dovrebbero prevedere, nella loro organizzazione aziendale, un nuovo reparto di COMPLIANCE che controlla se la terminologia usata nella organizzazione aziendale è in lingua nazionale e non contraria alla legge? E chi, e come si controlla il non rispetto della legge? Al di là delle incostituzionalità che tali norme potrebbero avere, di cui eventualmente si dovranno applicare le autorità preposte, diventeremmo veramente la BARZELLETTA DEL MONDO. Ma abbiamo bisogno anche di questo?

L’autore Valerio Ricciardelli

Forse sfugge che il nostro Paese è la seconda economia manifatturiera in Europa, dopo la Germania, e che le nostre aziende manifatturiere esportano prevalentemente i loro beni all’estero e acquistano parte della componentistica dall’estero. Forse sfugge che la maggioranza dei profili di ruolo, quelli che la proposta di legge chiama le SIGLE E DENOMINAZIONI, sono termini standard riconosciuti internazionalmente e necessariamente in inglese. Si dovrebbe anche sapere che nel governo c’è un “ministero del made in Italy”, che tradotto significherebbe “ministero dei beni costruiti in Italia”. Che sia anche questo ministero fuorilegge per l’uso “dilagante delle parole straniere”? E quindi sanzionabile?
Aggiungo anche, che in molte nostre università, le tesi della laurea magistrale si scrivono e si discutono ormai in inglese. Sarebbe reato anche questo?

Allora perché questa assurda proposta? Qual è il vero motivo?
Non è che sia collegata alla grave ed evidente situazione del PNRR? Potrebbe essere il primo sospetto che viene.
Forse è dovuta anche alla difficoltà dei funzionari che se ne devono occupare, di “maneggiare” le carte scritte in inglese, come vorrebbe l’Europa, anche per accelerare i lavori?
Se così fosse, la soluzione più ovvia e più immediata non sarebbe quella di coinvolgere, nel disbrigo di queste carte, funzionari con adeguate competenze linguistiche a partire dall’inglese? E magari fare una bella proposta di legge che imponga alla Pubblica Amministrazione che ha rapporti con le istituzioni internazionali, l’obbligo di disporre di personale con una perfetta conoscenza della lingua di comunicazione internazionale?
Qui però deve entrare in gioco il “ministero del merito”, se “merito” significa anche disporre delle competenze giuste, comprese quelle, linguistiche, che servono al Paese.

Attendiamo con speranza le considerazioni delle associazioni delle imprese, delle associazioni manageriali, del mondo degli intellettuali, di tutti coloro che si devono occupare del futuro del Paese.