Marco fuggì con tutte le sue forze, senza mai voltarsi.
Doveva far presto, trovare un nascondiglio.
Il vicolo in cui si era infilato puzzava di umido e di vecchio, ma lui non ci fece caso.
Con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta per rifornire d’aria i polmoni infiammati, passò al setaccio rapidamente ogni cosa: mucchi di sacchi della spazzatura sbrindellati da topi e gatti; cataste di cassette di legno imputridite dall’umidità; la carcassa arrugginita di un’auto della quale non era nemmeno più possibile risalire al modello; per concludere, nulla che andasse bene per lui.
Proseguì la corsa, sperando con tutte le sue forze che il vicolo non fosse cieco.
Si sentiva zuppo di sudore, che dalla fronte gli scivolava negli occhi facendoglieli bruciare, e pure la milza aveva preso a dolere.
Oltrepassò la catasta di cassette e aggirò l’auto, ma quel che vide in fondo lo paralizzò: un muro chiudeva la via. Alto, insormontabile.
Dannazione.
Marco si sentì gelare. Era in trappola.
Si guardò alle spalle per la prima volta: non si vedeva ancora nessuno, ma sicuramente era questione di secondi.
Ritornare indietro per lasciare il vicolo, era fuori discussione. Gli sarebbe caduto in bocca.
Affannosamente, cercò qua e là con gli occhi la salvezza, trattenendo involontariamente il respiro.
Possibile che non ci fosse nulla che facesse al caso suo?
Corse verso il fondo del vicolo, del tutto irrazionalmente, ma qualcosa doveva pur tentare.
Alti muri senza porte o finestre gli scorrevano sui fianchi, così come sull’asfalto pattume di poco conto.
Non c’era proprio via d’uscita, o qualcosa in cui nascondersi.
L’avrebbero preso.
Poi, in un cantuccio, proprio in fondo in fondo, a terra, Marco scorse una scatola di cartone piegata su sé stessa.
E se…
Senza pensarci due volte, vi si precipitò. Pareva abbastanza grande per contenerlo, anche se un po’ malridotta. La aprì, ne piegò i lembi, e le fece riacquistare tridimensionalità.
Teneva. Ottimo.
Con quella, di volata ritornò vicino alla carcassa d’auto. C’era abbastanza spazio vicino al muro.
Come una furia, la piazzò lì e vi si infilò.
Non restava che aspettare.
Il puzzo era micidiale, un mix tra piscio di gatto e cacca di topo, il tutto esaltato da un putridume del tempo che fu.
Marco si tappò il naso. Non era comodissimo, così accucciato e col capo piegato, ma altro modo non c’era.
Doveva evitare ogni movimento che avrebbe potuto segnalare la sua presenza, ma non era affatto facile. I nervi erano già provati.
L’attesa è sempre snervante.
Da fuori, finalmente, giunse un rumore di passi.
Fu quasi un sollievo.
Stavano arrivando.
Lo sapeva che sarebbero venuti in quel vicolo a cercarlo, anche se era parecchio distante.
“Marco, dove sei?” si sentì chiamare.
Lui muto, immobile, tra profumi non certo di rose.
“Marcooo…Marcooo…”
Se l’avessero oltrepassato, forse ce l’avrebbe fatta a balzar fuori e fuggire dal vicolo. Tutto sarebbe dipeso dal cartone, se non avesse attirato sospetti.
Temendo persino per il proprio respiro, Marco si impose un’immobilità assoluta. Attorno a lui, buio e puzzo.
“Marco…dai…vieni fuori…” lo cantilenavano.
Erano quasi giunti alla sua altezza, a giudicare dalle voci. Se fossero proseguiti…
In pochi secondi, comunque, ci sarebbe stata la svolta. O in un senso, o nell’altro.
Il cartone volò via, all’improvviso, con una pedata.
“Beccato!” esclamò felice un ragazzino dai capelli gialli come i denti, e corse via, verso la toppa.
Marco tentò d’inseguirlo, per precederlo, ma inciampò nella scatola e cadde a terra, sbucciandosi le ginocchia.
“…accidenti…” piagnucolò ” …non giocherò più a nascondino con voi…”
Emanuele Tavola