È interessante leggere sul Sole 24 Ore di lunedì 22 maggio l’articolo di Eugenio Bruno e Claudio Tucci, due giornalisti che si occupano di education e di mercato del lavoro, dal titolo:
Studio e lavoro distanti: mancano 140 mila tra laureati e diplomati.

Che dire? Innanzitutto, non è una novità.

Da tempo si scrivono le stesse cose, aggiornando di volta in volta i dati che evidenziano un peggioramento progressivo.

L’articolo riporta una analisi numerica fatta da Unioncamere, anche abbastanza dettagliata.

Ciò che colpisce di questi numeri, è che “ormai quasi una assunzione su due è considerata complicata dai datori di lavoro” con le conseguenze immaginabili per quanto riguarda il “valore aggiunto” perso. 
Il vero parametro che indica l’effetto sull’economia, per questo mismatch tra domanda e offerta di lavoro a causa delle difficoltà di reclutare i tecnici e, conseguentemente, per il lungo tempo necessario al loro inserimento, è la cosiddetta perdita di “valore aggiunto”, stimata in ben 38 miliardi di euro. Una cifra impressionante per il nostro sistema economico.

Questo indicatore economico non è molto familiare per chi si dovrebbe occupare di politiche scolastiche e formative finalizzate all’occupazione (E4E-Education for Employability), e questa è la ragione per cui, da tempo, insisto nel proporre una visione trasversale e sistemica dell’istruzione tecnica, nella filiera delle tre E che sono l’Economy (il sistema economico), l’Education (il sistema dell’istruzione e della formazione), e l’Employability (il mercato del lavoro e l’occupabilità).

L’effetto della perdita di “valore aggiunto”, per una cifra così importante di 38 miliardi di euro all’anno e in continuo peggioramento, significa che il nostro sistema economico, quindi le nostre aziende, soprattutto quelle industriali che rappresentano la seconda manifattura in Europa, dopo la Germania, devono sostenere nel loro conto economico, questo ulteriore onere improduttivo, che altro non è che una zavorra spaventosa che pregiudica la loro competitività fino a minare la loro sopravvivenza.

Infatti, la perdita di “valore aggiunto”, che ha origini lontane, ha pregiudicato fin dal 2009 quello che è chiamato il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) che, da quella data, è significativamente aumentato nel nostro Paese, mentre è diminuito in Germania, in Franca e in Spagna.

Questo effetto ha diminuito la competitività delle nostre imprese e conseguentemente ha determinato una politica dei salari bassi, per cui oggi si ha evidenza degli effetti, ma non si parla delle cause e soprattutto delle misure di intervento, non certo con effetti immediati.

Il grido di allarme, sulla distanza tra SCUOLA e LAVORO e sulle sue conseguenze, lo sollevò già in modo drammatico, Romano Prodi nel gennaio del 2016 sulla prima pagina del Sole 24 Ore. In quella occasione scrisse, che se non si fosse messo mano con urgenza al tema dell’istruzione tecnica, per creare in quantità e qualità le competenze di cui hanno bisogno le nostre aziende, quest’ultime sarebbero destinate, prima o dopo a chiudere.

La situazione dal gennaio del 2016 è notevolmente peggiorata. Oggi mancano almeno 140 mila tecnici all’anno, tra diplomati e laureati, e questa cifra è in aumento, con il rischio che si vada verso la rottura del sistema economico e sociale. Ma nelle cause di questo peggioramento ci sono molti paradossi, come scrivono Bruno e Tucci nell’articolo citato.

Si osserva, infatti, che pur mancando personale, l’Italia vanta la terza disoccupazione giovanile in Europa e ha il “poco invidiabile record di ben tre milioni di Neet”, in altri termini di giovani che non studiano e non lavorano, a cui si aggiunge un tasso elevato di abbandoni scolastici. Tutto questo poggia su un calo demografico altrettanto grave, basti pensare che ogni anno perdiamo più di 100 mila studenti.

Aggiungo che, nei settori di punta del nostro manufacturing, prevalentemente finalizzato all’export (la meccanica strumentale del made in Italy) mancano almeno 35 mila tecnici all’anno, di medio livello (diploma di istruzione tecnica e professionale) e di medio alto livello (diploma di ITS). Questi settori sono quelli della meccanica strumentale (parte prevalente del made in Italy), della meccatronica, dell’energia; insomma, tutti i settori che fanno riferimento all’automazione industriale.

Allora cosa si può aggiungere al “quadro drammatico” fatto dal Sole 24 Ore?
Innanzitutto, manca un parametro importante di tipo qualitativo, che però incide in modo determinate sugli indicatori quantitativi del sistema economico.
Sarebbe importante conoscere se la qualità delle competenze dei diplomati e dei laureati che potenzialmente potrebbero entrare nel mondo del lavoro, sono di medio alto livello, oppure di livello spesso non soddisfacente, come sembrerebbe tra i diplomati dell’istruzione tecnica e professionale.

Un primo dato da analizzare potrebbe essere il risultato degli esami di maturità, magari disponendo della curva gaussiana dei voti.

Se la perdita annua di valore aggiunto è pari alla cifra straordinaria di 38 miliardi di euro, ciò significa che il costo di inserimento nel mondo del lavoro di un tecnico, per farlo diventare operativo, al di là dei problemi di reclutamento, è elevatissimo e ciò è sicuramente dovuto alle scarse competenze possedute.

Poi, nell’articolo, manca una riflessione sulle cause di tutto ciò. Certamente non è facile, perché il rapporto causa-effetto è una funzione molto complessa.
Possiamo però dire che, se c’è tutta questa disaffezione verso la scuola, per il tasso di abbandono, per l’elevato numero di Neet, per le non sufficienti performance negli studenti, soprattutto quelli dell’istruzione tecnica e professionale, una causa è sicuramente la scarsa attrattività dell’offerta formativa, che a sua volta può dipendere da tanti altri fattori.

Insomma, l’offerta formativa proposta dal nostro sistema scolastico non è innanzitutto attrattiva, soprattutto per quanto riguarda l’istruzione tecnica e professionale, e poi inadeguata.
Questo fenomeno ha origini lontane.

Non resta che fare qualche riflessione su come affrontare il problema, e provo di nuovo a ripetermi.
Innanzitutto, dobbiamo avere la consapevolezza che l’economia mondiale e quindi anche la nostra economia continuerà a basarsi sul manufacturing, in tutte le sue evoluzioni, a partire dal green manufacturing.
Questo settore economico abbisogna di professioni tecniche, sempre in evoluzione, per gli effetti delle innovazioni tecnologiche e organizzative, nelle loro dimensioni micro e macro, e per tutti i cambiamenti economici, sociopolitici e ambientali a cui siamo sotto posti.

Queste professioni tecniche non sono più quelle di una volta: mestieri pesanti, sporchi e a bassa retribuzione.
Serve allora una politica di orientamento altamente professionale che sappia innanzitutto rappresentare, a tutti i soggetti coinvolti, il sistema e le relazioni delle tre E: Economy-Education-Employability, per poi arrivare a un piano serio e di alto livello di rilancio del SISTEMA DELL’ISTRUZIONE TECNICA.

Infatti, 
l’Istruzione tecnica può essere la leva strategica per fare crescita economica e sostenibile, anche in tempi brevi, per fare crescita occupazionale sostenibile e non precaria, e anche prevenzione intelligente (generando valore aggiunto) alla migrazione economica.

Questa riforma non può essere fatta dall’ex MIUR, oggi Ministero dell’Istruzione e del Merito; non ne ha le competenze, perché se le avesse avute non ci saremmo trovati in questa situazione.

Questa riforma deve coinvolgere tutto il Paese, a partire dal mondo economico allargato al mondo del lavoro.

Da dove iniziare?
Serve una grande consapevolezza, per comprendere che stiamo vivendo un periodo cruciale dove è in gioco il futuro del Paese.

Le soluzioni non sono da ricercarsi negli interventi di manutenzione dell’esistente e non è nemmeno un buon segnale la proliferazione, avvenuta in tempi brevi, delle società di formazione, di cui ha parlato la Gabanelli in un suo recete DATAROOM, perché ci sono ben 4,4 miliardi di euro da spendere (troppi), previsti nel PNRR.

Occorrono invece le COMPETENZE e le GIUSTE GRAMMATICHE per iniziare ad occuparsi di queste cose. 
Servono con urgenza gli STATI GENERALI DELL’ISTRUZIONE TECNICA.
Occorre una “Cernobbio” dove il focus sia L’ISTRUZIONE TECNICA: LEVA STRATEGICA PER IL RILANCIO DEL PAESE.

di Valerio Ricciardelli

studioso ed esperto
di Technical Education

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