“… me lo devi… me lo devi promettere…” era riuscito a dire, con un filo di voce “… sono tre… tre cose…”

“Te lo prometto”

“… anzi… me lo devi… me lo devi giurare… giurare su quello… su quello che hai… di più caro…”

“Te lo giuro su mio figlio”

Roberto era ridotto allo stremo, seppur avesse solo 39 anni. Nel letto d’ospedale sembrava ormai una sagoma vuota, cartavelina prossima a sgretolarsi. Solo gli occhi combattevano ancora, ma erano accerchiati e destinati alla capitolazione.

Un male incurabile se lo stava portando via.

Era il mio miglior amico: con lui avevo condiviso tanti piaceri della vita, e pure tanti momenti difficili. Ci eravamo sempre trovati bene assieme.

La malattia l’aveva colto nel pieno delle forze, ed aveva preso a smantellarlo giorno dopo giorno, senza che nessuna cura riuscisse a porre un argine.

La sua sofferenza era diventata la mia, ma ormai eravamo prossimi alla conclusione.

Quando morì, ne fui in parte sollevato, seppur profondamente addolorato.

Dopo il funerale, osservando le sue volontà, Roberto venne cremato.

Tutto quel che restava di lui, era contenuto in un vasetto trasparente, che presi in consegna da sua sorella Mariele, sempre secondo i suoi ultimi desideri.

Non mi restava che mettermi all’opera, sfruttando qualche giorno di ferie.

La notte, uscii di casa, avvolto in un impermeabile. Pioveva fitto, ma forse era meglio così.

Senza che per strada ci fosse qualcuno, con passo sostenuto raggiunsi la chiesa di San Eustorgio, la stessa dove Roberto era stato battezzato e vi era giunto trasportato a spalla.

Sicuramente, il portone principale era chiuso, ma poteva darsi che una porticina laterale non lo fosse. Anzi, ne ero quasi sicuro, siccome avevo fatto scorrere il chiavistello durante la cerimonia funebre.

Entrai nella navata di destra, circondato da un silenzio irreale. Solo le luci delle candele evocavano fantasmi irrequieti, ma non ci badai.

La navata di sinistra era in parte transennata, in quanto era in corso il rifacimento di una parte del pavimento. Accesi la torcia che mi ero portato e

andai proprio lì. Scavalcai il nastro e mi trovai tra carriole, attrezzi vari e pile di piastrelle. Quando individuai il mucchio della sabbia, vicino al muro, tirai fuori il vaso con le ceneri di Roberto.

“… una parte di me… dovrà cementarsi col… col sacro, divenire inscindibile… perpetuarsi nei secoli…”

Usando una cazzuola, feci una piccola buca nella sabbia e vi misi un terzo del contenuto del vasetto. Quindi, mischiai il tutto, ripristinando la superficie. Alla fine, controllai con la torcia: andava bene, le ceneri non erano distinguibili dal resto. Rimisi a posto la cazzuola e uscii.

L’orologio del campanile prese a rintoccare la mezzanotte quando ormai ero a casa.

L’indomani, andai alla stazione e presi un treno. Viaggiai per qualche ora, poi sbarcai. Ero giunto in un paesino minacciato dall’esondazione di un fiume.

I vigili del fuoco e l’esercito, oltre ad un nutrito gruppo di volontari, avevano rinforzato gli argini con una moltitudine di sacchetti di sabbia. Avevo preso ad aggirarmi, confondendomi tra i curiosi, i giornalisti e gli abitanti. Alla prima occasione, certo di non essere visto, avevo preso un sacchetto di sabbia e mi ero nascosto dietro un cespuglio.

A fatica, avevo sciolto le corde che lo tenevano chiuso e avevo gettato via un poco del contenuto. A quel punto, vi avevo versato la metà delle ceneri di Roberto che mi erano rimaste nel barattolo, e avevo richiuso.

“… un’altra… un’altra parte di me dovrà… dovrà servire a qualcosa… dovrà in qualche modo essere… essere utile…”

Dopo aver riposizionato il sacchetto, avevo ripreso il treno ed ero tornato a casa.

Il giorno successivo, ero tornato alla stazione e avevo preso un altro treno, con destinazione la capitale. Avevo viaggiato qualche ora, quindi ero arrivato. La città era zeppa di gente, meglio così.

Senza problemi, avevo trovato la sede del parlamento; il problema era riuscire ad entrarvi.

Mi ero appostato, cercando di non dare nell’occhio.

L’andirivieni era notevole, ma i controlli di sicurezza non mostravano pecche. Dovevo farmi un’idea di come funzionavano le cose.

Passai tutto il pomeriggio con occhio vigile, quindi trovai da pernottare poco lontano.

Il giorno dopo mi appostai di nuovo. Col trascorrere delle ore, riuscii a dare un ordine ai movimenti: passaggio di politici, di forze dell’ordine, giornalisti e fornitori vari. Tra questi ultimi, feci caso al furgone di “Forno & Delizie”,

che consegnava regolarmente di buon mattino, subito dopo mezzogiorno e poco prima delle 19,00.

Memorizzai l’indirizzo che compariva sulla fiancata.

Mi ci recai all’imbrunire, un vecchio palazzo di periferia. Il laboratorio di pasticceria stava a pianterreno, a giudicare dalle finestre con ventola e dall’aroma che ne proveniva.

Attesi che non passasse nessuno, quindi provai ad aprire le porte: tutte chiuse.

Non restavano che le finestre, abbastanza basse da poter saltarci dentro ma più pericolose nel caso qualcuno avesse assistito alla scena.

Attesi qualche ora nei paraggi, quindi, verso le 23.00, tornai all’assalto. Con disinvoltura, passai in rassegna le finestre, e finalmente una si aprì.

Dopo un’ultima occhiata in giro, balzai sul davanzale, lasciandomi poi cadere all’interno.

La luce che proveniva dai lampioni era sufficiente per non andare a sbattere, comunque avevo con me la torcia.

Mi aggirai circospetto, senza far rumore, fino a che non individuai quel che cercavo: un sacco di farina già avviato vicino ad una impastatrice.

“… e non ti scordare quelli che… che mi hanno avvelenato la vita… che mi hanno fatto mangiare rabbia e polvere… che si sono arricchiti sulla mia pelle… dovranno avermi… avermi sullo stomaco… per sempre…”

Miscelai la farina con le ceneri rimaste, utilizzando una specie di mescolo, quindi richiusi il sacco.

Me ne andai, lasciando la palazzina ombra tra le ombre.

Dopo qualche mese, ebbi occasione di andare a trovare Mariele, la sorella di Roberto, con la quale ero restato in buoni rapporti.

In soggiorno aveva una mensola con la foto di Roberto, qualche fiore e un vasetto colmo di polvere grigia.

Appena si era accorta che osservavo con curiosità, Mariele si era affrettata a prendere il vasetto e a portarlo via, chiaramente in imbarazzo.

Era pure arrossita, borbottando qualcosa riguardo i figli disordinati.

Emanuele Tavola